« nascondino a s.sepolcro 2 | Principale | rural charme »

19/05/2006

Commenti

Effe

mi pare che sottolineare l'uso di una lingua altra è semplice ma fondamentale.
Perché, banalmente, è uso che facciamo tutti.
Per scrivere, usiamo una lingua che non è quella che di solito parliamo.
Quanto qui scrive Palmasco che scrive di Palmasco, c'è una lingua differente rispetto a quando Palmasco racconta Llu.
E ciascuno di noi si sforza di trovare la lingua che finalmente permetta di dire anche le cose che ancora non sappiamo.
Perché la lingua non è solo un mezzo, e non è solo un corpo: è anche un confine.
I confini sono importanti perché definiscono le cose, danno idebntità e senso, e mi fanno comprendere che io sono io (se questo significa qualcsoa) e non anche una sedia o un temporale.
Ma il confine è limite, e oltre il limite ci sono cose che si possono raggiungere solo inventando parole nuove, o nuovi modi per dirle (che sono, poi, i nostri racconti)

palmasco

Sinceramente sentirei il bisogno di chiederti più precisione e precisare a mia volta molte delle cose che hai detto.
Ma come si fa a contestare l'unico che viene a parlare con te?
Riconosco e apprezzo ancora una volta la tua voglia di partecipare e in cambio ti mando una bella faccina :-)

Effe

dico che qui non parli di Llu, ma dell'universale.
Vediamola dal lato opposto, non di chi scrive ma di chi legge. Anche questa frase: "Llu non sa letteralmente quello che dice, nel senso che non sa come possa suonare, a noi nativi, a noi madrelingua italiani, quello che scrive in italiano" .
Questo vale per tutti.
Per tutti coloro che scrivono.
Cosa ne sanno, di come risulterà la loro scrittura all'occhio, all'orecchio, alla bocca di legge?
Nulla, dico io.
Non ne possono sapere nulla.
Ognuno legge per tramite dela propria lingua (che è stoira, esperienza, corpo e futuro personali).
Ognuno traduce quello che da altrr è scritto.
E allora, chi scrive non sa letteralmente cosa dice.
C'è, in questo senso, una impossibilità della scrittura.

demetrio

io palm non parlo di questa cosa che leggo e rileggo, preché ho l'impressione di assistere, leggendo, o di leggere, assistendo, ad una immensa seduta di psicanalisi.

questa cosa mi turba.
non so come dire.

qui non entrano in gioco gli strumenti, quelli che sento miei della critica letteraria, ma sono in scena strumenti di comprensione del testo diversi, che io sento estranei eppure affascinanti.

ecco.

d.

palmasco

Effe, non lo so.
A me pare che chi scrive punti sempre a qualcosa, c'è un ordine del discorso.
C'è sempre un ordine, magari non sempre lo stesso, magari non sempre riconoscibile immediatamente, ma io penso che un ordine ci sia sempre.
L'esistenza dell'ordine mi fa pensare alla presenza di un'intenzione. Se si dice, come credo che si dica correttamente, che molta scrittura è spontanea, bene questo per me vuol dire semplicemente che l'intenzione, o l'ordine, o la loro relazione sono inconsapevoli.
Non che non ci siano, quindi, ma che non siano percepiti da chi usa quell'ordine e segue quell'intenzione, o prova a metterle in qualche connessione.
Dunque io, se conosco la mia lingua, so in grande parte come verranno lette le mie parole, come verranno intese, tant'è vero che le scelgo e le metto in ordine perché vengano intese come desidero.
Fin qui il rapporto tra chi scrive e la lingua.

Poi secondo me succede un altro fenomeno, che il testo e il lettore maturino, nei casi più fortunati, significati e sensi che chi ha scritto non poteva prevedere, perfino quando il lettore è lo stesso che ha scritto.
Dunque io scrittore conoscevo la storia che volevo raccontare, e in larga parte so perché l'ho raccontata così, anche se a volte il mio sapere è soltanto spontaneo, e in larga parte so come la leggeranno i miei contemporanei con i quali condivido la lingua, ma per la sua capacità simbolica, la mia scrittura contiene anche cose di cui non sapevo nulla - capacità simbolica che le deriva dall'essere un sistema di segni.

Scrivo I tre moschettieri, per riprendere un esempio famoso di U. Eco, e tutti lo leggono come se fosse la storia del quarto, D'Artagnan...
Con questo voglio dire che il caso in cui nella lingua ci sia di più di quanto dice il testo, è un caso fortunato, un caso di straordinaria padronanza della Lingua, e non la condizione naturale dello scrittore, che scriverebbe, per così dire, alla cieca.
Lo scrittore scrive con un certo grado di controllo, a volte soltanto spontaneo, della lingua e dei suoi effetti.

Questo secondo me non succede nel caso di Llu, come sono arrivato a pensare nel corso della mia lunga avventura che si è conclusa con questo post.
Ero rimasto curioso del perché, del cosa fosse venuta a cercare nella nostra lingua, che non ci fosse nella sua.
Non quali parole non ci fossero, ma quali pensieri.
Una mancanza, un'assenza, può anche essere rappresentata con un buco, e di buchi si parla nel post di Llu, buchi ai quali è assegnata una funzione precisa e interessante, eccetera eccetera.

Demetrio sono d'accordo, quelli che ho usato non sono strumenti classici di critica letteraria.
Del resto a me interessava comprendere cosa dice il testo, e comprendere le emozioni che mi suscita, cosa me ne faccio della critica letteraria? :+))

llu

Dem, la sicanalise si fa tra 2 corpi e in presenza, come l'amore, non tra parole e assenze modello orgia o publievacuazione.
Non credo che Palmasco faccia sicanalise nel web, ha detto lui che analizza le sue emozioni, molto più intelligente.

Sulle lingue stranieri, usarle, Chillida -che nominò la luce nera di Bilbao, rovescio della luce mediterranea bianca, poi lavorò col ferro fino a piegarlo e convertirlo in pettine dei venti-Chillida, raccontò, che quando imparava a designare si legò per molto tempo la mano destra. Designava solo con la sinistra. Questa difficoltà, non essendo mancino, lo aiutava a rallentare la spontaneità, e pensare

llu

che poi non credo sia il mio caso che delle lingue salvo la parte chitarra o mare o mandolina

demetrio

domanda, perché secondo te gli strumenti classici di interpretazione del testo (esempio: critica delle fonti, semiologia, filologia etc etc) non ti permetterebbero di comprendere le emozioni che il testo ti suscita?

parlo, per me, ovvio, ma quando io ho davanti un testo e questo testo mi emoziona - e l'emozione è qualcosa di primario e in certo senso precedente a qualsiasi razionalizzazione e comprensione (perché in modo strano anche la tua è una razionalizzazione di un sentimento che quando leggiamo è allo stato nascente) - allora cerco di capire questo sentimento con gli strumenti della critica letteraria.

Tu con questo studio su Llu e il suo racconto sembri suggerire che gli strumenti "letterari" siano in un certo senso inutili.
O sono io che ho capito male.

d.

Effe

il controllo dello scrittore sulla lingua, di cui tu parli, esiste solo nell'intenzione, nella tensione, che pur riconosco.
Ma è un controllo che non può più essere esercitato, io credo, nel momento in cui la scrittura arriva ad altri (quando cioè compie il proprio percorso).
Usi a proposto la definizione di scrittura come segno. La scrittura che si crea è come un quadro astratto, fatto di segno, un segno universale che può tradurre i mondi.
Come pretendere che chi scrive abbia il conrollo sull'universale?
Come pretendere che l'insieme dei segni abbia lo stesso significato per tutti?
Io insisto che Llu incarna la figura dello scrittore, che mai sa cosa comprenderanno davvero i suoi lettori.

I commenti per questa nota sono chiusi.

New York

Los Angeles

La mia foto
Blog powered by Typepad
Iscritto da 02/2004

shinystat