"Forse se non ti avessi perso, avrei le idee cucite, come la rete dell'italiano", dice la narratrice di Llu al suo amore perduto, intendendo con "la rete dell'italiano" una rete di connessioni ben strette tra loro, senza buchi né inciampi.
Una connessione ideale, una relazione ideale, forse idealizzata.
Di certo nell'esperienza della narratrice, non c'è nulla che sia così lineare, senza soluzioni di continuità.
"Ma ti ho perso, dunque basta".
"Erano molte settimane che non mi compariva la tua bocca nel mezzo di tutte le cose, ma questa notte arrivai alle 45 e scoppiò. La lasciai lì bruciandomi fino all'alba, oggi è giornata di rovine".
C'è stato un incidente. Si direbbe che lei, la narratrice, scriva per circoscriverlo, quasi per isolarlo dalla vita circostante.
C'è stato un danno. C'è un danno.
Scrive forse per rendersi conto di quale sia esattamente, e di quanto sia grande?
C'è stato un danno:
"Se non rispondo al telefono mi rannicchio e guardo queste ramificazioni di Ramon y Cajal. [...] Forse sto demente quando mi si spargono le idee. Lo penso se vedo bambini piccolissimi che piangono. Li carezzi, così non gli si sparge la carne, li unifichi in una guaina immaginaria. Uguale ci sono bambini che nascono già con tutte le connessioni sfatte, male immaginati".
Qui secondo me dobbiamo dare un po' di tregua alla narratrice, rispettare il suo dolore, prenderne atto insieme a lei e lasciarla in pace per un po'.
L'ho già detto all'inizio di questo mio viaggio forse assurdo nelle sue note, lei ci conquista fin da subito perché non ha nessuna speranza, è soltanto una persona che nonostante l'incidente e le sue conseguenze, continua a tentare di pensare, di capire, di sentire.
Il suo è un tentativo tragico, perché destinato allo scacco, ma il percorso della sua sconfitta è molto dinamico e da un punto di vista drammatico genera tensione, speranza, sostenendo il nostro interesse per la lettura.
Alla fine, esauriti i fatti, quello che ci rimane è un atteggiamento lucido e aperto per il quale non possiamo che avere molta simpatia.
Ma qual'è il vero danno?
Una potenzialità sentimentale mai sviluppata, come crede lei, usando l'immagine molto efficace del bambino rannicchiato ancora in posizione fetale, mai nato?
Oppure l'ossessione di cui ci ha parlato dall'inizio, di lui che continua a comparirle in sogno, anche se non lo pensa più da tanto tempo?
O una miscela di tutt'e due?
Lei sente il passato che le prude ancora, senza poterci fare niente, come se il prurito fosse sull'arto fantasma di una persona amputata, una gamba inesistente ben conosciuta dalla patologia medica, che prude senza che si possa più grattarla, perché la gamba in realtà non c'è più.
E' in questo momento, secondo me, che lei diventa qualcosa di più della rappresentazione di una persona o di uno stato d'animo, diventa il simbolo di una domanda sul senso e sulle proporzioni dei danni che subiamo e non possiamo quantificare direttamente, che ci riguarda tutti.
Noi che leggiamo, Llu che scrive, che attraverso il personaggio della narratrice indaga con l'immaginazione quella condizione.
La narratrice senza alcuna illusione sulla possibilità effettiva di rovesciare la delusione che si è incisa nelle sue carni come un fatto compiuto, tenta comunque di parlarne, almeno a se stessa, di raccontarla - nonostante, in fondo, non ci siano le parole per dirla, come del resto non ci sono in generale negli innamoramenti: "sento qualcosa dentro che non saprei dire" è la frase classica in quelle condizioni, qui molto significativa.
La narratrice cerca la parola a partire dalla relazione tra sé e le conseguenze della sconfitta, la cerca mettendosi in relazione al danno, interrogandosi sull'estensione e la natura del danno, e i propri rapporti con quello.
Non entra qui, inevitabilmente in gioco la lingua?
E cioè l'aspetto più evidente, più immediato, dei post di Llu?
Una spagnola che scrive in italiano.
Non lo conosceva particolarmente, ma usandolo lo sta imparando, lo usa scrivendo, e scrivendo ha finito per crearne una propria versione, alla quale rispondono e hanno risposto tantissimi suoi lettori.
Mi verrebbe da buttare giù una risposta semplice: era chiaro.
Se una cosa non puoi dirla nella tua lingua, per farlo devi andare a cercarne un'altra.
Tutti noi che siamo ancora qui, a leggere le righe che scrivo, siamo richiamati adesso a sorvegliare, a riflettere sulla nostra relazione con lo strumento che ci viene assegnato più o meno alla nascita, la lingua che ci permette di dire quasi tutto e che, ognuna delle lingue in modo specifico, non ci permette di esprimere alcune determinate aree dell'esperienza.
Così, per esempio, nessuna lingua ha la leggerezza calda dell'italiano, da cui praticamente tutto il mondo ha adottato il ciao per salutarsi, come se alle altre lingue mancassero non tanto i saluti, ma quel modo irriverente e insieme affezionato di salutarsi, tanto per dirne una, eccetera eccetera con tutte le altre lingue.
Ecco... non mi pare più, anche se a me non era mai parso così, che ci sia del compiacimento nella scelta di Llu di scrivere in una lingua non sua, non mi pare che sia stata soltanto una trovata, tutto sommato superficiale, per attirare l'attenzione.
No, vedo nei suoi racconti, e in questo in particolare, la necessità di esporsi ad una lingua diversa, provare ad usarla per connettersi ad alcune cose che altrimenti non potrebbero essere dette, forse, aggiungerei, nemmeno pensate, sentite.
In un certo senso Llu non sa letteralmente quello che dice, nel senso che non sa come possa suonare, a noi nativi, a noi madrelingua italiani, quello che scrive in italiano.
Ne ha un concetto, anzi forse più che altro una speranza.
Ed è per questo, forse, che io le ho risposto con la mia avventura.
Non sto indagando sulle mancanze dello spagnolo, sia chiaro, ma soltanto riflettendo sul meccanismo generale: ciascuno di noi avverte, in circostanze critiche della propria esperienza, che la lingua madre non gli permette.
Non gli permette punto.
Ed ha bisogno d'altro.
Nello stesso tempo sento che il tema, in quest'epoca in cui siamo tutti così facilmente esposti ad altre lingue, direi più che mai, si presta molto bene a dirci qualcosa di generale sulla condizione dell'uomo nella modernità del nuovo millennio.
Ciao.
mi pare che sottolineare l'uso di una lingua altra è semplice ma fondamentale.
Perché, banalmente, è uso che facciamo tutti.
Per scrivere, usiamo una lingua che non è quella che di solito parliamo.
Quanto qui scrive Palmasco che scrive di Palmasco, c'è una lingua differente rispetto a quando Palmasco racconta Llu.
E ciascuno di noi si sforza di trovare la lingua che finalmente permetta di dire anche le cose che ancora non sappiamo.
Perché la lingua non è solo un mezzo, e non è solo un corpo: è anche un confine.
I confini sono importanti perché definiscono le cose, danno idebntità e senso, e mi fanno comprendere che io sono io (se questo significa qualcsoa) e non anche una sedia o un temporale.
Ma il confine è limite, e oltre il limite ci sono cose che si possono raggiungere solo inventando parole nuove, o nuovi modi per dirle (che sono, poi, i nostri racconti)
Scritto da: Effe | 23/05/2006 a 11:22
Sinceramente sentirei il bisogno di chiederti più precisione e precisare a mia volta molte delle cose che hai detto.
Ma come si fa a contestare l'unico che viene a parlare con te?
Riconosco e apprezzo ancora una volta la tua voglia di partecipare e in cambio ti mando una bella faccina :-)
Scritto da: palmasco | 23/05/2006 a 18:57
dico che qui non parli di Llu, ma dell'universale.
Vediamola dal lato opposto, non di chi scrive ma di chi legge. Anche questa frase: "Llu non sa letteralmente quello che dice, nel senso che non sa come possa suonare, a noi nativi, a noi madrelingua italiani, quello che scrive in italiano" .
Questo vale per tutti.
Per tutti coloro che scrivono.
Cosa ne sanno, di come risulterà la loro scrittura all'occhio, all'orecchio, alla bocca di legge?
Nulla, dico io.
Non ne possono sapere nulla.
Ognuno legge per tramite dela propria lingua (che è stoira, esperienza, corpo e futuro personali).
Ognuno traduce quello che da altrr è scritto.
E allora, chi scrive non sa letteralmente cosa dice.
C'è, in questo senso, una impossibilità della scrittura.
Scritto da: Effe | 24/05/2006 a 11:48
io palm non parlo di questa cosa che leggo e rileggo, preché ho l'impressione di assistere, leggendo, o di leggere, assistendo, ad una immensa seduta di psicanalisi.
questa cosa mi turba.
non so come dire.
qui non entrano in gioco gli strumenti, quelli che sento miei della critica letteraria, ma sono in scena strumenti di comprensione del testo diversi, che io sento estranei eppure affascinanti.
ecco.
d.
Scritto da: demetrio | 24/05/2006 a 16:31
Effe, non lo so.
A me pare che chi scrive punti sempre a qualcosa, c'è un ordine del discorso.
C'è sempre un ordine, magari non sempre lo stesso, magari non sempre riconoscibile immediatamente, ma io penso che un ordine ci sia sempre.
L'esistenza dell'ordine mi fa pensare alla presenza di un'intenzione. Se si dice, come credo che si dica correttamente, che molta scrittura è spontanea, bene questo per me vuol dire semplicemente che l'intenzione, o l'ordine, o la loro relazione sono inconsapevoli.
Non che non ci siano, quindi, ma che non siano percepiti da chi usa quell'ordine e segue quell'intenzione, o prova a metterle in qualche connessione.
Dunque io, se conosco la mia lingua, so in grande parte come verranno lette le mie parole, come verranno intese, tant'è vero che le scelgo e le metto in ordine perché vengano intese come desidero.
Fin qui il rapporto tra chi scrive e la lingua.
Poi secondo me succede un altro fenomeno, che il testo e il lettore maturino, nei casi più fortunati, significati e sensi che chi ha scritto non poteva prevedere, perfino quando il lettore è lo stesso che ha scritto.
Dunque io scrittore conoscevo la storia che volevo raccontare, e in larga parte so perché l'ho raccontata così, anche se a volte il mio sapere è soltanto spontaneo, e in larga parte so come la leggeranno i miei contemporanei con i quali condivido la lingua, ma per la sua capacità simbolica, la mia scrittura contiene anche cose di cui non sapevo nulla - capacità simbolica che le deriva dall'essere un sistema di segni.
Scrivo I tre moschettieri, per riprendere un esempio famoso di U. Eco, e tutti lo leggono come se fosse la storia del quarto, D'Artagnan...
Con questo voglio dire che il caso in cui nella lingua ci sia di più di quanto dice il testo, è un caso fortunato, un caso di straordinaria padronanza della Lingua, e non la condizione naturale dello scrittore, che scriverebbe, per così dire, alla cieca.
Lo scrittore scrive con un certo grado di controllo, a volte soltanto spontaneo, della lingua e dei suoi effetti.
Questo secondo me non succede nel caso di Llu, come sono arrivato a pensare nel corso della mia lunga avventura che si è conclusa con questo post.
Ero rimasto curioso del perché, del cosa fosse venuta a cercare nella nostra lingua, che non ci fosse nella sua.
Non quali parole non ci fossero, ma quali pensieri.
Una mancanza, un'assenza, può anche essere rappresentata con un buco, e di buchi si parla nel post di Llu, buchi ai quali è assegnata una funzione precisa e interessante, eccetera eccetera.
Demetrio sono d'accordo, quelli che ho usato non sono strumenti classici di critica letteraria.
Del resto a me interessava comprendere cosa dice il testo, e comprendere le emozioni che mi suscita, cosa me ne faccio della critica letteraria? :+))
Scritto da: palmasco | 24/05/2006 a 19:10
Dem, la sicanalise si fa tra 2 corpi e in presenza, come l'amore, non tra parole e assenze modello orgia o publievacuazione.
Non credo che Palmasco faccia sicanalise nel web, ha detto lui che analizza le sue emozioni, molto più intelligente.
Sulle lingue stranieri, usarle, Chillida -che nominò la luce nera di Bilbao, rovescio della luce mediterranea bianca, poi lavorò col ferro fino a piegarlo e convertirlo in pettine dei venti-Chillida, raccontò, che quando imparava a designare si legò per molto tempo la mano destra. Designava solo con la sinistra. Questa difficoltà, non essendo mancino, lo aiutava a rallentare la spontaneità, e pensare
Scritto da: llu | 25/05/2006 a 09:50
che poi non credo sia il mio caso che delle lingue salvo la parte chitarra o mare o mandolina
Scritto da: llu | 25/05/2006 a 10:15
domanda, perché secondo te gli strumenti classici di interpretazione del testo (esempio: critica delle fonti, semiologia, filologia etc etc) non ti permetterebbero di comprendere le emozioni che il testo ti suscita?
parlo, per me, ovvio, ma quando io ho davanti un testo e questo testo mi emoziona - e l'emozione è qualcosa di primario e in certo senso precedente a qualsiasi razionalizzazione e comprensione (perché in modo strano anche la tua è una razionalizzazione di un sentimento che quando leggiamo è allo stato nascente) - allora cerco di capire questo sentimento con gli strumenti della critica letteraria.
Tu con questo studio su Llu e il suo racconto sembri suggerire che gli strumenti "letterari" siano in un certo senso inutili.
O sono io che ho capito male.
d.
Scritto da: demetrio | 25/05/2006 a 11:44
il controllo dello scrittore sulla lingua, di cui tu parli, esiste solo nell'intenzione, nella tensione, che pur riconosco.
Ma è un controllo che non può più essere esercitato, io credo, nel momento in cui la scrittura arriva ad altri (quando cioè compie il proprio percorso).
Usi a proposto la definizione di scrittura come segno. La scrittura che si crea è come un quadro astratto, fatto di segno, un segno universale che può tradurre i mondi.
Come pretendere che chi scrive abbia il conrollo sull'universale?
Come pretendere che l'insieme dei segni abbia lo stesso significato per tutti?
Io insisto che Llu incarna la figura dello scrittore, che mai sa cosa comprenderanno davvero i suoi lettori.
Scritto da: Effe | 25/05/2006 a 11:46