"Oggi dopo un'ora di baci immaginati pensai, basta.
Il vento soffiava a 140 kmh.
Il cielo era colore sale d'argento. La risacca oscura nel mare.
Il sale d'argento lo trovai nel giornale, parlava di Ramon y Cajal, un nevrologo".
La narratrice di Llu parla sempre di cose, a volte visibili a volte invisibili, mai inesistenti.
Un po' come fa la fotografia, qui evocata dai sali d'argento, che ossidandosi alla luce, permisero il passaggio definitivo al bianco e nero fotografico, una volta esposti al rivelatore.
Anche se è un passaggio che non tutti sono in grado di fare immediatamente o consapevolmente, in qualche modo sappiamo tutti collegare i sali d'argento alla fotografia, magari un po' oscuramente, ed è per questo, secondo me, che l'immagine del cielo color sali d'argento è subito comprensibile ed evocativa di un grigio molto adatto alla atmosfere che il racconto ha sviluppato fin qui, e nello stesso tempo rallenta e sofferma il lettore su un'immaginazione che è costretto a fare, quella sui processi chimici dei sali.
Su questa cosa, su questo elemento allo stesso tempo così visibile e così invisibile in quanto indefinito, la narrazione secondo me a questo punto poggia per introdurre ed esporre quello che è il suo cuore.
"(Ramon y Cajal) volle sapere come si connettevano i neuroni. Stette anni litigando con un italiano per colpa di come si organizzavano queste cellule.
L'italiano diceva che i neuroni stavano tutti collegati come una rete, facendo una maglia. Lo spagnolo sostenne che erano indipendenti.
Che c'erano buchi tra esse e nei buchi si facevano incontri, la sinapsi".
Mi ricordo - ora sono io che parlo, io Palmasco - di un altro racconto di Llu che mi aveva colpito.
La narratrice corre tra i campi mano nella mano con un ragazzo, poi restano a riposare per terra nell'erba, e lei racconta di come ci fosse un gran cielo notturno, luna e stelle, e c'erano baci, e lei vedeva il cielo a tratti, tra un passaggio e l'altro della faccia di lui davanti ai suoi occhi, ma non si lamentava della vista strappata, si lamentava che lui fosse distante...
L'ho cercato nel blog, ma in mancanza di riferimenti più precisi - titolo ecc. - non sono riuscito a rintracciarlo.
A parte il fatto che potrei non avere avuto la pazienza necessaria, magari invece qualcuno lo ricorda e lo può rintracciare, io una volta che l'ho segnalato a Llu in una lettera privata che aveva più o meno lo stesso tono di oggi, non ebbi da lei nessuna risposta, non negava l'esistenza del racconto, ma neanche la confermava, si comportava come se non ne avessi parlato.
Lo attribuii a un atteggiamento d'autore, di cui in giro s'è già sentito parlare e non ho indagato oltre.
Per quanto mi riguarda però ho pochissimi dubbi, quel racconto esiste.
Ed è una versione diversa dello stessa tema che piano piano faccio venir fuori da quest'altro racconto, non vi pare?
Dendriti e sinapsi circoscrivono uno spazio di presenze e assenze, di ramificazioni e buchi, ed entrambi sono conduttori di contenuti, sia pure in modo diverso, e così il cielo e la testa del ragazzo formano un mondo molto simile, di vuoti e di pieni, di viste e di sviste, anche se l'attribuzione di quale sia cosa è più difficile.
Ma la sensazione che Llu voglia parlare proprio di questo è fortissima.
Affascinante, vero? Si vede bene la similitudine?
C'è anche qualcosa da dire sulla contesa tra Ramon y Cajal e l'italiano sulle vie di trasmissione nervose e cerebrali, qualcosa alla quale la scienza è arrivata soltanto recentemente, sviluppando un modello chimico di trasmissione al posto di quello elettrico, che permette in effetti di centrare in pieno la metafora di Llu sul pensiero dello scienziato spagnolo.
p.s. ricordo di leggere gli altri post su questo argomento cliccando sulla categoria qui sotto, accanto alla data del post, e soprattutto il testo di Llu in originale (è in italiano).
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